7 domande sulla moda sostenibile per una rivoluzione green possibile

La moda può svolgere il suo ruolo nella società senza che la Terra ne risenta, ma è necessario riorientare i valori. È importante credere nel potere delle piccole azioni per ottenere un grande risultato

Sostenibilità ambientale, trattamento etico dei lavoratori, inclusività: sono queste le sfide all'orizzonte per chi produce abiti e accessori, ma anche per chi li acquista e deve imparare a scegliere in modo consapevole. In queste pagine i pionieri della moda di domani rispondono a 7 domande fondamentali e ci raccontano la rivoluzione possibile.

È chiaro che l’industria della moda, così come il ruolo che noi vi svolgiamo in qualità di consumatori, si trova in un momento storico di transizione. I vecchi modelli vengono oggi smantellati ed è in corso una radicale reinvenzione. Per quanto sia emozionante, c’è anche tanta incertezza. Non esiste una soluzione unica ai paradossi etici di questo momento cruciale. Le idee, però, non mancano. La maggior parte di noi non vuole acquistare prodotti dannosi per l’ambiente o essere parte di dinamiche nocive, ma può essere davvero difficile essere sempre al corrente di tutti i problemi principali e dei potenziali rimedi. Perciò abbiamo consultato i pionieri nel campo della sostenibilità e della moda etica e posto loro le grandi domande che l’industria della moda si trova ad affrontare.

Swan GalletGetty Images

Se la "fast fashion" è tanto dannosa, perché esiste ancora?

Chiunque oggi ha sentito parlare di fast fashion, e sappiamo bene che al pianeta fa bene quanto a noi fa bene il fast food. Ma cosa significa davvero? Il termine fa riferimento alla rapida produzione di grandi quantità di capi d’abbigliamento economici e di tendenza, che ricalcano gli stili proposti dai grandi marchi e presentati sulle passerelle. L’idea è quella di far arrivare tra le nostre mani gli abiti non appena diventano desiderabili, per poi indossarli solo qualche volta prima di gettarli via.

Il desiderio sfrenato di possedere ciò che è nuovo, che è di tendenza o che lo sarà, ci offre uno status, un senso di appartenenza e la breve soddisfazione che potremmo trarre dal cibo spazzatura, dall’alcol o dalle sigarette – prodotti dannosi che continueranno a esistere finché risponderanno a un bisogno umano. Ne abbiamo parlato con Liv Simpliciano, responsabile delle politiche e della ricerca di Fashion Revolution: «La moda è importante e riguarda il 100 per cento della popolazione. È una componente essenziale della vita e per molti è anche una forma fondamentale di espressione personale. La moda può svolgere il suo ruolo nella società senza che la Terra ne risenta, ma sarà necessario riorientare i valori, investire nell’educazione e sensibilizzare le persone su modi alternativi di vestire e di vivere».

Di recente, l’attivista Greta Thunberg ha spiegato a Elle UK: «La maggior parte delle persone sa che la fast fashion è molto dannosa per l’ambiente, ma è anche convinta che nell’industria della moda siano in molti a impegnarsi per migliorare e aumentare la propria sostenibilità. In realtà, molto spesso non è così. È il frutto di una pratica che viene utilizzata per far credere ai consumatori che le aziende prendano delle misure di quel tipo, il cosiddetto greenwashing, un inganno molto comune».

Cosa significa essere consumatori responsabili?

La prima consapevolezza da acquisire è che gli indumenti più sostenibili saranno sempre quelli già presenti nel nostro armadio. Si tratta poi di avere curiosità e voglia di capire qualcosa in più. Una volta compreso l’impatto dell’industria della moda, è impossibile distogliere lo sguardo. Occorre porsi domande come: ne ho bisogno o lo voglio? Ho già qualcosa di simile nell’armadio? Lo indosserò più volte, lo amerò per molto tempo e avrò voglia di ripararlo all’occorrenza? E non aver paura di rivolgere altre domande ai principali marchi e rivenditori. Lisa Williams è Chief product officer di Patagonia. L’anno scorso questo marchio di abbigliamento outdoor e ha preso una decisione senza precedenti: il Ceo ha annunciato che avrebbe ceduto la sua attività a un fondo per la tutela dell’ambiente e a un ente di beneficenza senza scopo di lucro. Una mossa che ha fatto tremare i responsabili di altri marchi. Williams ha dichiarato che Patagonia mira a creare un esercito di consumatori consapevoli, molti dei quali sono millennial o generazione Z, abituati a mettere in discussione le norme dell’industria della moda. «Siamo davvero felici che le nuove generazioni ci pongano domande difficili» afferma, «domande a cui non sempre abbiamo una risposta. Ci aiutano ad alzare l’asticella».

Quanto dipende dalle scelte individuali e quanto dalle decisioni delle grandi aziende del settore?

Si potrebbe dire che hanno entrambi un certo peso, ma i marchi hanno una responsabilità maggiore. Le nostre scelte individuali però possono fare la differenza ed è importante credere nel potere delle piccole azioni per ottenere un grande risultato, altrimenti sarebbe molto facile addossare la colpa per gli indumenti che acquistiamo alle aziende che li hanno prodotti in modo dannoso. Abbiamo tutti un ruolo da svolgere. Semplicemente, i problemi a cui l’industria deve far fronte sono troppo estesi perché un singolo individuo possa risolverli.

La nostra definizione di moda di lusso e di moda etica deve cambiare?

Solo perché un capo è “di lusso” non significa che sia sostenibile. Se la maggior parte dei modelli di business della fast fashion è caratterizzata da pratiche non sostenibili né etiche, anche i marchi di lusso contribuiscono al consumo eccessivo e alla distruzione dell’ambiente. I luxury brand si sono infatti resi colpevoli dell’incenerimento delle scorte invendute in nome dell’esclusività derivante dalla scarsità. Liv Simpliciano aggiunge: «Molti dei microtrend non sostenibili in continua produzione derivano dalle passerelle di lusso, e i marchi più commerciali fanno a gara per imitarne gli stili. Eppure, il ritmo con cui gli abiti diventano obsoleti rispetto al ciclo delle tendenze e vengono poi dismessi dopo pochi utilizzi è inarrestabile. Quando una persona decide di disfarsi di un indumento, quest’ultimo non scompare: finisce per forza da qualche parte. Il lusso che non possiamo permetterci è l’attuale ritmo con cui stiamo impoverendo la Terra e sfruttando le persone che producono i nostri vestiti».

Quali sono i problemi più urgenti che l’industria della moda deve affrontare?

«Non distruggere il pianeta e non produrre in eccesso. Oggi non c’è praticamente più terreno e il prezzo del cotone è alle stelle; ormai non esistono più vestiti da 5 dollari, quindi la maggior parte delle persone non può permettersi tessuti di cotone», afferma Aja Barber, autrice di Consumed e contributing editor di Elle UK. Tamzin Rollason, esperta di moda sostenibile residente a Melbourne, aggiunge: «Credo che l’industria della moda abbia due grandi problemi da risolvere. Attualmente è vincolata a perpetuare una produzione di capi che passeranno rapidamente di moda e saranno gettati via, complice la forte attrattiva delle tendenze stagionali. È vero che l’industria della moda in generale sta adottando la sostenibilità, ma è anche vero che sta lanciando messaggi contrastanti, continuando per esempio a generare il desiderio di nuove tendenze. In secondo luogo, l’industria sta cercando di guidare il cambiamento progettando più prodotti. La moda sostenibile non è vista come un sostituto della moda commerciale, ma come un’aggiunta. L’intero settore dovrebbe invece passare a metodi di produzione e consumo sostenibili».

Esistono alternative più ecologiche alla pelle e alla pelliccia?

Come ha spiegato Stella McCartney a Elle: «L’idea che la pelle e le pellicce animali siano sinonimo di qualità e longevità fa parte di un modo di pensare ormai superato. Credetemi, la produzione di scarpe sostenibili costa più di quella di un paio di scarpe in pelle. Alla gente viene propinata una bugia: che la pelle e la pelliccia sono più lussuose e, se vogliono crederci, bene. Ma io sono qui per dirvi e dimostrarvi il contrario».

La stilista è convinta che il modo in cui vengono trattati gli animali sarà il prossimo tema centrale nell’ambito della discussione sull’impronta ambientale della moda. «La gente ha paura di questo argomento, perché non è piacevole parlarne. Ma sfido chiunque a varcare la soglia di un allevamento di animali da pelliccia e a vedere se chi ci lavora mostra con orgoglio quello che sta facendo».

In prima linea nella creazione di alternative alla pelle c’è MycoWorks, un’azienda che produce un materiale di alta qualità a partire dal micelio dei funghi. Il Il suo primo impianto di produzione su larga scala è stato aperto nella Carolina del Sud e produrrà diversi milioni di metri quadrati di fine mycelium all’anno. MycoWorks ha collaborato con marchi come Hermès, Nick Fouquet e Heron Preston. Un portavoce dell’azienda ci ha raccontato: «I brand ci dicono che non hanno ancora trovato un materiale migliore del nostro che soddisfi le loro esigenze di qualità e prestazioni. Adorano la morbidezza, la qualità, l’estetica e la sensazione al tatto del nostro tessuto. Sembra un materiale di origine naturale, perché lo è a tutti gli effetti». Patrick Thomas di MycoWorks, ex Ceo di Hermès, aggiunge: «Sono ormai decenni che le industrie di moda e calzature sono alla ricerca di alternative di qualità alla pelle animale, e la domanda dei consumatori è in crescita. Allora perché il cambiamento non è ancora iniziato?».

Cosa impedisce all’industria della moda di essere davvero inclusiva?


Lesley Hampton è un’artista e stilista anishinaabe (tribù indigena canadese) e direttrice creativa di Lesley Hampton, un marchio di abbigliamento e accessori di proprietà indigena e inclusivo in termini di taglie, con sede a Toronto. Ci ha detto: «Credo che siano i nostri pensieri autocritici a rendere l’industria della moda refrattaria a una svolta diversificata e inclusiva. Viviamo in un mondo postcoloniale che ha sviluppato la narrazione istituzionalizzata secondo cui dobbiamo seguire gli standard di bellezza eurocentrici per inserirci nella società. Questa mentalità ha manipolato la nostra percezione della realtà e il consumismo alimenta la convinzione che, modificando il nostro aspetto per adeguarci a ciò che è di tendenza, saremo accettati e ci sentiremo parte di un gruppo; ma solo finché le tendenze non cambiano». Christina Tung, fondatrice di Houseof, un’agenzia di PR di moda innovativa, aggiunge: «In tutti i Paesi l’industria è più interessata a vendere che a promuovere l’empatia verso gli altri e a rappresentare le minoranze emarginate. Le aziende con pratiche non etiche sopravvivono e prosperano perché noi continuiamo a sostenerle, spesso per i prezzi più bassi, la convenienza, l’ingenuità o il desiderio di un prodotto alimentato dal marketing».

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